(Della edizione italiana de Ed. Mediterranee, Roma 1993)
 

I SIMBOLI PRECOLOMBIANI
Federico González

CAPITOLO VI

ALCUNI ERRORI FILOSOFICI
Lo si voglia o no, il punto di vista che possiamo avere sopra una cosa o un argomento nasce da un particolare orientamento, ed è tinto d'un colore che non è certo estraneo al punto di vista stesso né all'angolazione della nostra visione. Questo è particolarmente vero sul piano intellettuale, giacché il fardello di idee, preconcetti, gusti, attrazioni e fobie dai quali il nostro pensiero è condizionato, come perfino i nostri propri sentimenti, è limitato in primo luogo dalle circostanze di spazio e tempo nelle quali ci è toccato esistere e che, apprese come 'la realtà', segnano e inquadrano la nostra posizione davanti alle cose, si tratti delle credenze più profonde o di consuetudini superficiali. 

Questa limitazione dalla quale la maggior parte delle volte non ci salviamo, e con la quale inconsciamente ci identifichiamo in maniera aprioristica, è data in termini culturali dalla supremazia di determinati parametri connessi al nostro tempo storico e al nostro spazio geografico. Rispetto al primo diremo che le nostre convenzioni, o le idee della nostra epoca, determineranno la nostra visione; quanto al secondo, affermeremo che i presupposti della cosiddetta 'civiltà moderna' sono chiaramente occidentali, e hanno finito per invadere tutto il mondo. Questa doppia circostanza si avverte specialmente nella comprensione delle tradizioni pre-ispaniche, scoperte precisamente nel momento in cui l'Occidente aveva già tagliato con la sua tradizione, che perdurò fino agli inizi del Rinascimento italiano, prolungandosi poi fino al secolo XVII (sebbene in forma 'occulta' si sia perpetuata fino ad oggi), a partire dal quale la realtà del simbolo si trasformò in allegoria; posteriormente perse tutto il suo significato, e si verificò una serie di fatti e circostanze che portarono a un taglio con i principi universali dai quali nessuna autentica civiltà aveva prescisso, che saranno dimenticati, e considerati come anticaglie, alle quali opporre un solido progresso che in nessun modo può tollerarle. Questa situazione ha provocato una serie di malintesi e di errori, nei tempi attuali, che hanno ereditato fedelmente l'equivoco di una serie di presupposti filosofici, che, sebbene abbiano il loro antecedente proprio nei greci, culminano con il Rinascimento e le sue logiche conseguenze: il razionalismo cartesiano, la rivoluzione industriale, la produzione fine a se stessa, il consumo e la disumanizzazione tecnica. 

Non è il caso di trattare qui della decadenza dell'Occidente, ma disviscerare alcune concezioni, proprie degli studi sul tema americano, intimamente connesse con il loro tempo e la loro cultura, e che inoltre – essendo proprie degli ultimi secoli – tendono ad essere attribuiteall'uomo universale, di ogni tempo e luogo; ciò equivale a negare leforme esistite delle grandi culture anteriori, attribuendo loro caratteristiche dell'occidente moderno, il quale, messianicamente s'inventa rettore e redentore del mondo selvaggio e dell'arretratezza (come ilpadrone di una supposta verità ufficiale o scientifica che ci rende – facendo parte della cultura moderna – in certo modo superiori), percui a volte dobbiamo caritatevolmente perdonare le civiltà antiche perle loro deficienze, come elogiare determinate loro virtù, per dimostrareche, dopotutto, coloro che vivevano in quel tempo, non erano poitanto stupidi, o selvaggi malintenzionati. Questo quando tali civiltànon vengono semplicemente rifiutate a priori, in toto. 

Certamente questo non è il caso di quanti con intenso amore, pazienza e totale dedizione, si sono occupati dell'ardua e bella quanto faticosa opera di ricerca sulla cultura americana. Ciò non toglie che molti studiosi si accostino ai temi di tale specializzazione con un proprio bagaglio culturale, appartenente al loro tempo e che, qualora basato su idee filosofiche già erronee nell'antichità classica, può in qualche modo avere influenzato il loro punto di vista, al di là dei loro meriti, e dell'apporto utile e concreto che hanno potuto offrire, e che ci hanno generosamente trasmesso. 

Si scandalizza il padre Joseph de Acosta, secondo un punto di vista nettamente religioso, del fatto che, anche conoscendo un Essere Supremo Creatore, gli indigeni non avessero per esso un nome specifico, ma lo nominassero attraverso diverse divinità intermediarie: "... da dove si vede quanto limitata e debole nozione abbiano di Dio, poiché non sanno neanche nominarlo"; paradossalmente invece mette in evidenza la maestosità dei templi e dei riti, e la 'religiosità delle genti', e, in particolare, riferendosi alla loro cosmogonia, annota con sagacia: "sembra quasi che tendano al dogma delle idee di Platone". 

In verità non c'è niente di strano nel non nominare direttamente la divinità, e la dottrina Tradizionale considera innominabile la Suprema Identità, per la sua stessa essenza sovracosmica, non soggetta ad alcuna determinazione, pertanto neppure al nome, il quale si esprime mediante i suoi attributi, cioè i nomi divini; tema, questo, in chiara e stretta relazione con gli archetipi platonici, senza menzionare il sufismo islamico e la cabala ebrea, vigenti nello stesso spazio storico, contemporanei alle civiltà precolombiane.1 

D'altro canto, gli indigeni sottomessi dall'impero Inca chiamavano Huaca la presenza del sacro e il magico-tellurico in ognuna delle sue molteplici forme o manifestazioni (pietre, montagne, fiumi, astri, fenomeni celesti e terrestri, crocevia, culti funebri, etc.), che certamente s'incontravano dappertutto in un mondo – e in uno spazio mentale sacralizzato.2 

È non conoscere il pensiero simbolico tradizionale, non sapere come l'antichità concepiva e viveva il simbolo, il dedurre da una semplice lettura superficiale (inoltre quasi sempre soggetta alla moda), che gli indigeni, solo per questo fatto, erano politeisti, idolatri, animisti e naturalisti. Semplicemente, riverivano gli innumerevoli stati di un Essere Universale – la divinità, il sacro – che si manifestava in tutto l'ambiente intorno come ierofania.3 

Per questo si tratta ora di evidenziare alcune erronee concezioni, o preconcetti, che si riferiscono a certe determinate posizioni delle correnti intellettuali in voga in questo o quel periodo. 

Non vogliamo fare una lista né una, classificazione esaustiva, considerandola vana e non adeguata alla circostanza, però certamente possiamo riferirci ad alcune delle più comuni, en passant – e sulle quali torneremo nello svolgimento di questo libro –, nate quasi tutte, come si è già detto, dalla scienza positivista del secolo passato, erede del razionalismo, dell'evoluzionismo e di quanto è seguito: idee progressiste che sebbene oggigiorno non abbiano più fondamento (e cioè siano state abbandonate anche dalla 'scienza' empirica più recente), senza dubbio rimangono assolutamente vigenti come fattori di potere sociale, brandite da certi personaggi con caratteristica petulante saccenza. 

Abbiamo gia detto come sia falsa la concezione che le società precolombiane fossero politeiste, animiste o naturaliste, e, ancor meno, idolatriche. Nel primo caso, il considerarle in questo modo equivoco, è comune a tutte le tradizioni e religioni che vedono l'energia della divinità incarnata in numerose forme, in diversi dèi, o meglio, numi, principali o secondari, discendenti o ascendenti, che manifestano attributi dell'Essere Universale. 

Fra popoli antichi e moderni, è questo il caso dei Greci, Romani, Egizi, Nordici, Celtici, Caldei, Mazdeisti, Induisti, Buddisti, Orientali, etc.. Nell'ebraismo, nel cristianesimo e nell'islamismo, analoga funzione assolvono gli arcangeli, gli angeli, ed esseri divini, che sono come intermediari, simboli o messaggeri della Suprema Identità. 

Nel secondo caso si pensa che i popoli ai quali si attribuisce il nome di 'animisti' (generalmente ai cosiddetti 'primitivi'), fossero vittime del terrore che incuteva il cosmo, al quale rendevano devoto omaggio considerandolo animato. Si confonde il sentimento di riverenza verso la vita e il timore o il rispetto per il sacro, con una forma di ignoranza tale da concepire spiriti maligni o benigni come entità indipendenti, dotate di vita propria, quasi materializzate, nelle quali si suppone che essi credessero alla lettera, e alle quali obbedissero ciecamente. Queste idee trovano posto solo nella mentalità dei contemporanei, di quelli che producono gli intrecci dei film di indiani e cowboys, di cannibali ed esploratori. 

Il terzo errore è imparentato con il precedente, come dei resto lo sono tutti fra loro. La visione 'naturalista' – della quale, nel mondo, forse il miglior rappresentante è un buon scrittore, James Frazer – è di ridurre tutti i miti, simboli e riti dei primitivi, e dell'antichità, al mero riconoscimento di fenomeni naturali o astronomici, considerati fenomeni d'ordine magico, mentre invece oggi sono fatti comprovabili scientificamente e perfettamente normali. 

Molti dei ricercatori che hanno seguito questa linea hanno il grande merito di aver visto la relazione esistente fra certe credenze, usi e costumi, con gli avvenimenti del cielo e della terra, i cicli degli astri, i processi generativi, etc., però sbagliando nel limitare la comprensione degli americani alla semplice constatazione degli accadimenti, e il loro conseguente meravigliarsi davanti agli stessi, fatto che li avrebbe portati all'adorazione di tali forze in sé. Al contrario, queste energie sono solo manifestazioni di principi invisibili –ch'esse esprimono – e dei quali sono solo il simbolo. 

Le civiltà precolombiane davano importanza al soprannaturale, che, come si sa, è ciò che va oltre il naturale, anche se espresso nella simbolica sacralità della natura. Infine, definire tali civiltà idolatriche 4 suppone il vedere nella immagine fisica del dio ciò che esso sta rappresentando. È possibile che questo sia accaduto in qualche caso o momento – come nello stesso modo è stato per l'ebraismo e per il cristianesimo – però questa ipotesi sembra piuttosto aver avuto la sua base nello zelo dei sacerdoti cattolici che vedevano solo idoli o forme demoniache, in tutto quello che non fosse il Gesù della Inquisizione Europea. 

Ci sembra un altro equivoco il ritenere che le lingue precolombiane non abbiano prosperato, volendo con questo intendere che non giunsero alla scrittura fonetica.5 Proprio al contrario di ciò che si suole pensare, le rappresentazioni ideogrammatiche e geroglifiche sono di gran lunga più ricche – per i popoli che le vivono, che non per noi che non le comprendiamo – e sottili, e semplici e di comprensione immediata. Incoraggiano innumerevoli operazioni mentali associative e ampliano le possibilità intellettuali degli individui e delle società che si governano in base a questi codici. D'altra parte il loro potere evocativo e la pluralità delle loro immagini rendono possibili continue sintesi, e dilatano l'universalità della coscienza. Designano vari piani, o spazi volumetrici in cui possono combinarsi letture e concetti distinti tra loro. Ancor oggi il cinese è parzialmente ideogrammatico, ed è ben nota la raffinatezza di pensiero di questa civiltà. In realtà tutte le scritture sono state nella loro origine ideogrammatiche, e sono andate corrompendosi – come tutte le forme culturali – nella semplificazione fonetica e successivamente alfabetica. La quale, a forza di limitare il concetto e fissarlo, lo cristallizza particolarizzandolo, e lo separa dall'insieme (nonostante questo, comunque, il concetto mantiene un potere creativo e generatore). Questa tendenza è parallela al cambio ciclico delle società, e al passaggio da una mentalità intuitiva, sintetica e analogica – mediante la quale si apprende direttamente – a quella della ragione, della molteplicità dell'analisi, e della logica, che sono indirette. 

La città nel suo apogeo, la civiltà (come dire le grandi culture classiche quali oggi le apprezziamo, e cioè moduli rigidi che annunciano il loro prossimo spezzarsi e scomparire) sono i migliori esempi di questa ultima asserzione. Lo è anche la filosofia, che dev'essere vista come un'espressione decadente, giacché implica in se stessa un'azione: l'amore per la sapienza, che si deve stimolare quando si è perduta la Conoscenza. I modelli o le forme che questo periodo culturale instaura, sono rigidi come le muraglie, le fortificazioni e le costruzioni in pietra della città, e, trasposti nel pensiero dei suoi abitanti, li rendono in tal modo protagonisti incoscienti di questo irrigidimento. 

Si è anche detto che gli indigeni non avevano – e ancora non possiedono – personalità. Questa critica è curiosa. Si condanna un modo d'essere che, per non essere abituale, è giudicato come una forma di deficienza . Popoli che credono che il loro esilio sia la terra, che considerano come dimora passeggera, e invece loro, destino e origine è il cielo al quale devono tornare, difficilmente possono considerarsi come individui 'con una personalità', secondo l'ideale moderno, il quale, d'altra parte, è l'antitesi di qualsiasi insegnamento tradizionale.6 

Laurette Sejourné, una delle più valide e lucide studiose del mondo precolombiano, critica un altro importante studioso, Eduard Seler, di mantenere una visione propria del suo tempo e della sua situazione, però a sua volta cade nel medesimo errore nel suo libro Pensamiento y religiòn en el Mexico Antiguo; nonostante abbia indovinato che i precortesiani mettevano in relazione la teogonia e la cosmogonia (e la forma di vita sociale e individuale) con l'iniziazione – fatto percepibile in tutte le società tradizionali –, sbaglia nell'attribuire a questa un semplice carattere religioso, devoto o ascetico, riducendola così quasi a un formalismo pietistico. Effettivamente, nel testo già citato, si afferma da un lato che Teotihuacàn era la città degli dèi, che "lontana dall'implicare grossolane credenze politeiste evoca il concetto della divinità umana" e non era altro se non il luogo in 'cui il serpente raggiungeva il livello di un essere celeste per la sua elevazione interiore'. 

Questo fatto che indubbiamente era cosi, rimane però svalorizzatoquando si associa l'elevazione interiore a idee religiose, in cui il 'mistico' e il 'morale' sono equiparati al processo iniziatico di Conoscenza, il che risulta parziale ed equivoco, come il continuare a pensare che la magia è uno stato precedente alla concezione religiosa e che sono entrambe equivalenti al processo della realizzazione metafisica, o iniziazione. 

Riguardo al criterio secondo il quale si afferma che gli indigeni non avevano storia, e viene ciò segnalato come prova di arretratezza di queste società, o un loro difetto, ci limiteremo a ricordare la nota sentenza: «I popoli felici non hanno storia". E non ce l'hanno perché il loro modo di pensare, la loro cultura, non poggia né si sofferma su ciò che è successivo, frammentario e individualizzato (salvo nel segnalare certi accadimenti ciclici, manifestati nelle loro genealogie, ed eventi mitici), ma, piuttosto, nella dimensione del simultaneo: vivono così un presente indefinito, sempre nuovo, perché costantemente si rigenera.7 La visione storica attuale accorda al tempo storico una cronologia oraria e lineare, assegnandole una pretesa realtà oggettiva, che è tale solo nella mente soggettiva dei contemporanei. Concepire la storia, la filosofia o la letteratura, non è, come si pensa, un progresso sociale, o una tappa culturale superiore, ma piuttosto il contrario, l'indice più netto di una degradazione irreversibile. Questo è quello che è accaduto con l'antichità classica, e l'Occidente è andato conquistando l'Oriente, oggi già legato per il collo allo strepitoso crollo della società moderna. 

Dunque, se queste valutazioni appena fatte nascono da un punto di vista determinato dallo spazio e dal tempo (e le idee e i concetti che in loro confluiscono), anche il nostro punto di vista potrebbe essere soggetto a queste oscillazioni e mode culturali. Non crediamo che sia cosi, essendoci noi posti nella prospettiva della PhiIosophia Perennis, come dire dal punto di vista di un pensiero permanente, non soggetto alle fluttuazioni, essendo questo archetipico e Tradizionale; tale pensiero Tradizionale si esprime in forma unanime attraverso simboli e strutture culturali in seno a qualsiasi società. 

Questo è precisamente l'oggetto dello studio della Simbologia – o della Simbolica – giacché questa scienza considera il cosmo e l'uomo nella sua totalità, e, in ultima istanza, considera tutte le manifestazioni come simboliche, specialmente quelle culturali. 

D'altra parte, essendo il simbolo il ponte fra il conosciuto e l'ignoto, la Conoscenza che promuove la Simbologia corrisponde al piano invisibile, o non conosciuto, per mediazione del simbolo, che lo rappresenta nel piano del visibile, o conosciuto. Non ci arrischieremo a dire che questo punto di vista che sosteniamo tenda all'esoterico, perché questa parola oggi sembra indicare qualcosa che sta come fuori della realtà: anche per il discredito nel quale è caduto questo termine, inteso come il segreto per il segreto in sé, come sinonimo di mistificazione. Però, se vedessimo in questa parola ciò che veramente esprime, la sua contrapposizione con l'exoterico, come due modalità di una medesima cosa, le due facce di un arazzo, essendo quella exoterica brillante e descrittiva, e la esoterica la più oscura, quella della trama e dell'ordito – o in altri termini l'esterno e l'interno, o l'esistenza e l'essenza – potremmo dunque convenire che la simbolica, assumendo il simbolo come oggetto di studio, si avvicinerà ogni volta di più alla dimensione sconosciuta, attraverso quella conosciuta. Traduzzione: Agnese Sartori.

 
NOTAS
1 I Guaranì adoravano un Dio chiamato 'Tupa' la cui traduzione è: chi sei? 
2 Gli Irochesi e altri indigeni nordamericani denominavano'Orenda' questa presenza. La incarnava anche Manitù, il Grande Spirito chiamato dai Sioux Wakan Tanka, essendo 'Wakan' in questa lingua la parola generica per tutto il sacro, e cioè, per tutto quello che – oggetto, fenomeno o essere – avesse il potere di trasmettere l'energia dei divino, in particolare la natura come immagine o impronta del soprannaturale. Si osservi che i termini wakan e huaca sono praticamente identici. Questo è uno dei paradossi del precolombiano, giacché certe lingue di tribù delle terre centrali nordamericane sono della stessa famiglia del quechua, sebbene a mille chilometri di distanza e separate da infinite altre lingue.
3 " ... Oh padre! Tu che sei Hunab Kú, Unica divinità, il creatore, il nostro creatore; buono è il tuo potere ... o padre, protettore della nostra anima ... " (El libro de los libros de Chilam Balam, FCE, Mexico 1988, pag.128). (N.d.T.)
4 Per fare solo un esempio, padre Francisco Ximénez, nella traduzione del Popol Vuh, tradusse la parola 'cabauil' ("dio"), con 'idolo', generando così già in partenza una serie di equivoci. (N.d.T.)
5 Un esempio chiaro di ciò si trova nell'introduzione al Codice Borbonico fatta da Francesco del Paso y Troncoso, nel suo commento a detto codice. Editrice: Siglo XXI - Mexico 1981, pag. XIII.
6 "Forse diciamo qualcosa di vero, qui, o datore della vita? 
Solo sogniamo, solo ci svegliamo dal sonno. Solo è come un sogno ... 
Nessuno parla veramente, qui ... " 
(Cantares Mexicanos, Tomo 5, V.). [Traduzione da una raccolta di Miguel León Portilla]. 
7 Non è che non si occupassero dei fatti storici, ma piuttosto che per loro questi fatti erano carichi di altri significati, più ampi – multidimensionali – di quelli che registra una semplice storiografia.