IL
SIMBOLISMO DELLA RUOTA
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Al giorno d’oggi generalmente quando si parla d’ arte, ci si riferisce vagamente alla sua storia o in modo impreciso ad un fatto culturale di un certo status intellettuale e socioeconomico, che la pittura (la più ingiustamente fortunata delle arti) esemplifica. Di solito ci si riferisce ad essa come ad un inventario musicologico di opere finite, datate in un determinato tempo e localizzate in un dato luogo. Dal punto di vista in cui ci collochiamo non ci interessano tanto queste prospettive, che certamente non neghiamo, ma preferiamo considerare l’arte come un’ attitudine specificamente umana, che non rientra in nessuno schema classificatorio o storico-geografico, ma che è perfettamente viva, attualizzata dall’uomo di tutti i tempi e riflessa nei suoi simboli culturali e sacri, che, sebbene riconoscano un’ origine preesistente, sono la materia a partire dalla quale si produce la ri-generazione ciclica delle civiltà, così come nel firmamento l’attività solare ricrea permanentemente le diverse condizioni o forme di vita del suo sistema.

In questo senso ci siamo sempre interessati all’arte come forma di conoscenza, o meglio, all’atteggiamento dell’artista come una maniera di addentrarsi in determinate dimensioni del mondo lineare che lo circonda – malgrado lui stesso ne sia poco cosciente –, mediante una concentrazione delle sue possibilità, che può essere realizzata sia attraverso un lavoro ordinato e paziente sia per mezzo della sintesi catartica totalizzante. O attraverso entrambe, dato che in realtà l’una non esclude l’altra, ma si completano laddove la scoperta o la contemplazione della bellezza produce una specie di emozione legata ad un sentimento di pienezza, assenza o vuoto, dove tutti gli esseri e le cose non sono altro che sé stessi, nella loro pura e semplice realtà, il che equivale a sperimentare l’idea archetipica di armonia, anche nella disarmonia, e l’equilibrio e la giustizia, anche nei concetti che vi si oppongono.

Questa emozione intellettiva è un modo di conoscere. Una maniera, un atteggiamento, certamente impreciso, non logico, del soggetto che conosce di avvicinarsi all’oggetto della conoscenza e che, giunto al suo climax, fonde il soggetto che conosce con l’oggetto conosciuto, producendo la conoscenza, che quindi non è più successiva, e neppure spaziale, ma diventa qualcosa di diverso nel momento in cui si produce una trasformazione – qualunque essa sia – , sempre appresa attraverso l’esperienza diretta, qualsiasi cosa o essere manifestato sia utilizzato come supporto simbolico.

Si può vedere qui uno stretto legame con l’amore, in quanto entrambe le possibilità emotive uniscono o legano, o agiscono come prolungamenti dell’identità del Sé in tutte le cose. Ci interessa inoltre rilevare un elemento di incertezza, o di avventura, inerente ai rischi dell’arte e dell’amore, due maniere di affrontare al più alto livello il processo della conoscenza, che si trova all’origine dell’essere stesso e nella sua identità. E questo rischio, questa passione, questo fuoco, è sempre presente in tutto ciò che implica la ricerca e la realizzazione della bellezza e della saggezza, vale a dire l’unità in amore, il che costituisce l’arte nella vita.

Ci riferiamo, quindi, all’arte come ad una “poetica” compromessa con il conoscere dell’uomo, al quale consideriamo parte imprescindibile di questo processo perenne di interrelazione ed espressione, dove l’intelligenza universale che egli stesso riflette, manifestandosi come un arte dalle indefinite possibilità, gli offre l’opportunità di essere tutto ciò che conosce.

Questa “poetica” include tutte le arti:48 architettura e costruzione, artigianato, tecniche e scienze, mestieri (ceramica, vetro, giardinaggio, lavorazione del ferro, tessuti e calzature, gioielleria, falegnameria, ecc.), le arti cosiddette marziali e la danza, la scultura, la musica, il teatro, la poesia, la geometria, la grammatica, l’alchimia, ecc., vale a dire le arti liberali e l’uomo integrale.

E poiché non c’è nulla che non sia simbolico nell’ordine microcosmico, questa “poetica”, riferita all’uomo e alla sua attività creatrice, può essere trasposta all’ordine macrocosmico, dove la natura, la vita e l’universo, non sono altro che un insieme analogo di esseri e funzioni, uniti nell’amore. Per questo la terra e l’uomo possono essere considerati come opere d’arte, oppure oggetti di disegno, frutto di una poetica generale, il cui origine è un suono chiamato Verbo o Logos, che non è altro che la manifestazione sorta dal maggior grado di concentrazione possibile.49

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L’affermazione che senza uomo non c’è arte è ovvia, ma non è superfluo effettuare questo chiarimento in una società che per una specie di mania empirica separa le cose dal loro contesto e attribuisce loro una categoria differente, come se avessero vita o realtà per sé stesse, classificandole nel casellario immaginario corrispondente, in questo caso con il nome di “arte”. Attribuendo loro una serie di caratteristiche perfettamente arbitrarie o illusorie, tendenti a farci credere – in modo quasi pubblicitario –, che si tratta di una verità oggettiva, addirittura quasi scientifica, sempre qualcosa di concreto, tangibile, disposto ad essere analizzato o catalogato.

L’uomo è il soggetto-oggetto del vero arte, e attraverso lui si materializza la possibilità dell’opera creativa, riflesso di un’opera più ampia, nella quale l’uomo è incluso. Il mago – che estrae cose dalla sostanza informe, e realizzandole attualizza le possibilità che essa ha in sé, così come quelle che lui stesso porta interiormente–, situato nel centro del suo circolo rituale, è il creatore dello spazio in cui hanno luogo tutte le sue possibilità e quelle della sua opera. Questo è il suo cosmo, simbolizzato dal circolo, che compie anche funzioni limitative, nonché protettrici. E la sua immagine verticale, situata spazialmente nel centro o asse della figura, è la mediazione tra il cielo e la terra; vale a dire un veicolo tra il mondo invisibile delle idee e la loro manifestazione orizzontale e materiale, attraverso una gestazione o incarnazione delle potenzialità dell’essere, sul piano intermediario, che devono riflettersi nell’atto creativo.

Quest’uomo è l’artista,50 individuo di mestiere o di conoscenza, che ricrea il mondo attraverso la sua attività redentrice, vivificando le potenzialità latenti in ogni uomo, immanenti in ogni sostanza. Si connette così con il ritmo di tutte le cose, il ritmo universale,51 e la sua opera costituisce il passaggio tra l’increato e il creato, come una sintesi che manifesta l’unità per plasmarla immediatamente nella molteplicità delle forme. Il che equivale ad assimilarle analogamente a un doppio movimento di concentrazione-espansione, di espressione energetica centripeta-centrifuga, yin-yang, solve-coagula, sempre presenti in tutte le cose, e che fa vibrare l’artista come un diapason armonico in connessione verticale, che necessariamente deve irradiare sul piano orizzontale.

E questa conversione di energia statica in dinamica, che va dall’uno al molteplice, trova una replica istantanea nell’azione inversa, quella del riciclaggio dal molteplice all’uno, poiché l’opera d’arte concepita ed eseguita si trasforma a sua volta in oggetto statico, ed è contemplata da un altro uomo, che a partire da essa, come cosa creata, rimanda all’atto creativo e alla rivelazione dell’idea – o archetipo – ispiratrice, che diede origine a tutto il processo.

È in questo lavoro di trasmissione, nel corso del quale l’essere umano come soggetto dinamico – in questo caso l’artista – riceve, emette e da luogo all’oggetto o simbolo rivelatore, che a sua volta ritrasmette l’energia originaria, diventando così un supporto, un veicolo della comprensione, che risiede il mistero dell’arte. In definitiva, il mistero dell’uomo, o di tutta la creazione – poiché questo processo è valido per qualsiasi manifestazione –, che si esprime sempre in modo rotativo o ciclico.

Vogliamo ricordare qui l’idea della fecondazione per mezzo della parola, e quella già citata del Verbo o Logos come origine della manifestazione. E anche quella di Purusha come principio attivo e Prakriti come principio passivo o sostanziale della creazione universale.

L’artista, mago, sciamano o demiurgo, è anche il re o imperatore di uno spazio in cui lui è l’asse o il centro.52 Ed essendo tutto concatenato nella vita universale, essendoci sempre qualcosa di preesistente, e in modo analogo dovendo esserci qualcosa di preesistente per altri – che apriranno gli occhi dopo di noi–, ogni gesto o atteggiamento muoverà energie indefinite, a volte visibili o di uno storicismo evidente, ma per la maggior parte invisibili, sconosciute persino da coloro che vi partecipano.

La legge di corrispondenza agisce sempre, come non potrebbe essere altrimenti, poiché si tratta di una legge universale; e la volontà di essere crea un nuovo spazio dove l’opera creativa o il regno fioriscono, perché dove c’era solo un amorfo, o un vuoto, la sostanza universale vergine pronta ad essere fecondata dall’energia positiva, ora si è generato un mondo, che era già contenuto in quella sostanza in modo passivo. E così quello che era passivo diverrà ora attivo, e l’energia attiva, che ha funzionato come detonatore, diventerà un simbolo, od oggetto statico creato, che porterà implicito in sé stesso l’energia attiva originale, sintetizzata in forma passiva o potenziale, disposta ad essere vivificata, per poter acquisire così una nuova configurazione spazio-temporale, tra la bipolarità dell’asse di una sfera, o il punto originale e la circonferenza di un circolo, o il centro e la periferia mobile di una ruota.

L’uomo sarebbe quindi un mediatore, un intermediario, il creatore di un piano di espansione tra l’idea archetipica e la sua cristallizzazione finale nel mondo, tra l’unità originale primigenia e l’individualità dell’opera creata nella diversità di un genere.

Poiché qualsiasi punto della circonferenza è un riflesso – e in quanto tale inverso – del punto originale, e, come quest’ultimo, porta in sé stesso la possibilità di generare un campo, o cosmo, vale a dire un’opera o creazione. Questa è la ragione d’essere dell’arte, e certamente della magia, nonché del simbolo e del rito. In questo modo l’uomo, identificandosi attraverso l’arte con il punto virtuale, o unità sintetica, sfugge alla relazione spazio-temporale, perché l’immobile, assoluto o infinito, non ha fine né fini. Ed è in questo modo che estrae dall’idea archetipica la manifestazione creativa, che è sempre nata e sempre nasce.

Questo si deve al fatto che l’unità, sdoppiandosi nel ritmo della dualità, mediante le sue emanazioni o intermediazioni, genera la molteplicità degli esseri – o stati dell’Essere universali –, o le cose create, punti individuali sulla circonferenza spazio-temporale, sementi che portando in sé stesse la potenzialità di creare, ossia di imitare53 l’unità archetipica, fanno sì che questa rifluisca incessantemente con il movimento di una ruota, immagine e modello del cosmo.

Così, l’ispirazione artistica, la sua espressione e il ritorno all’idea originale attraverso la sintesi che ha reso possibile la concrezione dell’opera od oggetto artistico costituiscono uno schema simbolico sempre presente in qualsiasi manifestazione.

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A questo punto del discorso sembra evidente che ciò che oggigiorno si considera arte, ciò che si intende per arte, ha poco o nulla a che vedere con le concezioni espresse anteriormente. Non si tratterà qui di fare una critica esaustiva delle ipotesi o controversie estetiche attuali – né del mercato o della professione di artista –, e neanche delle circostanze cicliche, storico-socio-culturali-economiche, che hanno generato questi tremendi equivoci e menomazioni.

Vorremmo tuttavia puntualizzare certi dettagli o errori esemplificatori: Uno di questi consiste nel prendere per arte una serie di lavori scelti più o meno arbitrariamente, condizionati da circostanze temporali canalizzate attraverso le mode, gli usi e i costumi, e attribuire loro una categoria “artistica”. Un altro errore corrente è quello di attribuire all’arte una natura oggettiva, come se si trattasse di una realtà tangibile che potesse essere trasposta a tale o quale artefatto.

“Le opere sono fatte con arte, non sono arte”, ci avverte lucidamente A. K. Coomaraswamy.

Si potrebbe obiettare che tutte le cose sono arte, ma solo nella misura in cui si veda in loro un simbolo espresso dell’idea, vale a dire una possibilità di incarnare quell’idea. Se invece la visione fosse letterale si considererebbe di nuovo il simbolo non come mediatore, ma in modo oggettuale, separandolo dal suo contesto, trasformandolo in una divinità idolatrica, un feticcio o un tabù.

Un altro equivoco sarebbe quello di prendere l’arte come qualcosa di più o meno insignificante o piacevole, ma quasi necessario, capace di “spiritualizzare” o rendere più gradevole l’ambiente generale. Come un’esperienza ludica, una tecnica intelligente –quasi squisita– di evasione, che fornisce un’alta dose di confort e status. Oppure, in senso inverso, di drammatizzare le circostanze creative, aggiudicando loro un’importanza assoluta, cercando di rendere trascendenti le esperienze psico-fisiche o la materia con la quale si lavora, che per definizione non lo sono.

Un altro ancora: la divisione tra ciò che è bello o simbolico e ciò che è utile, ignorando che ciò che è bello o simbolico, ha di per sé il massimo dell’utilità. Così come ridurre l’arte al gusto, che come l’ego diviene costantemente, e oggi è una cosa e domani un’altra. E anche l’atteggiamento di coloro che pretendono di utilizzarlo come un mezzo di propagazione ideologica o di influenza psichica, qualsiasi essa sia, per le stesse ragioni che abbiamo esposto anteriormente.

L’arte considerato come espressione della personalità è una fallacia, dato che quella personalità, nel modo in cui oggi la si vede, è inesistente. È stata estratta dall’ambiente che l’ha condizionata. E non è altro che la riproduzione o la mera imitazione di gesti, quando non è la copia evidente di stili, atteggiamenti, mode, maniere, “idee”; in definitiva: di una serie di storielle false tanto quanto le nostre. Poiché i modelli che, coscientemente o no, copiamo, sono stati coinvolti in situazioni analoghe a quelle che ci è capitato di vivere e hanno agito allo stesso modo, mascherandosi nel miglior modo possibile, nel ballo di fantasia progressista nel quale ci troviamo.

Così, le maschere cambiano nel corso del tempo, con la continuità del fatto che ogni volta crediamo che quella maschera siamo “noi stessi”. Il che equivale all’identificazione con la smorfia di turno,54 con la quale siamo vincolati emozionalmente, la maggior parte delle volte per via di un evento fortuito, di un fatto casuale in un senso o in un altro, di fronte al quale reagiamo in un modo o in un altro.

Sono situazioni, queste, che estraiamo dall’ambiente e che rimangono impresse nella nostra psiche come qualcosa di nostro e personale e importantissimo, quando in realtà sono completamente inventate dall’illusione di altri che condividono la nostra ignoranza.

È necessario avvertire che siamo completamente programmati, e quello per cui siamo disposti a morire, vale a dire la nostra identità personale, non è altro che un fatto imposto dalle circostanze contingenti (socio-economiche, storico-geografiche e familiari) che ci è capitato di vivere. ¿Che uomo potrebbe identificarsi, essendo universale, con il numero del suo documento di identità o con la sua impronta digitale o con le sue ossessioni, fobie e manie?

È stato detto che la vita è sogno, e anche che la società moderna, che afferma enfaticamente i suoi presupposti indiscutibili, e che ci modella “positivamente” e “materialmente” in essi, è una farsa.

In ogni caso è evidente che internamente noi non siamo quest’illusione, quest’inganno condiviso che abbiamo visto cambiare davanti ai nostri occhi in maniera evidente nelle sue forme politiche, storiche, sociali, scientifiche, affermando con sicurezza, solidità e impudenza l’altro ieri una cosa, ieri un’altra cosa, oggi un’altra differente –cose completamente opposte e contraddittorie–, atteggiamento che verrà mantenuto fino alla fine, come è stato fatto fino ad ora, trovando sempre il modo di giustificarsi.

E ciò che è più paradossale è il fatto che prendano questo stato di totale confusione e reincidenza di errori filosofici e deviazioni che vengono segnalate dall’antichità come progresso ed evoluzione.

Se ci rifiutiamo di essere questo prodotto sociale, bisogna chiederci: ¿Che cosa siamo? E trovare un’uscita. Il che sarebbe come riconoscere la propria identità, l’essere, il vero io. Siamo in mezzo ad una ruota e non si può scappare. Intrappolati, tutto si ripete senza tregua e non riusciamo a scappare dai nostri modelli, che si riciclano in un perpetuo ritorno, dato che siamo imprigionati nel carcere del principio e la fine, della dualità della causa e dell’effetto, che obbliga la nostra psiche a ripetere indefinitamente le sue condotte in perfetto accordo con il tempo, che si reitera in tale modo, che ogni giorno che passa è un avvicinarsi alla vecchiaia, alla malattia e alla morte.

Succede che noi uomini di questo secolo non ricordiamo che l’essere umano impara tutto. Ci insegnano a mangiare, a camminare, a parlare, e così via. L’uomo non sarebbe niente di ciò che pretende di essere se non l’avesse imparato.
Siamo quello che sappiamo, e questo ci è insegnato sempre. E sorprendentemente crediamo e consideriamo come una cosa naturale – come consustanziale all’essere umano – un sapere infuso comune a una specie privilegiata, proprietaria e rettrice della terra, quando certamente non facciamo altro che imitare imitazioni che ci conformano.

Questo è valido non soltanto per le conoscenze razionali o coscienti, ma anche per il “sentimento” e persino per l’”istinto”, – entrambi appresi – che nell’ epoca attuale sono la maggiore garanzia di certezza.

Si tratterebbe, quindi, di abbandonare la confusione dell’idea di tempo, così come ci viene presentata oggi, , per conoscere e vivere l’atemporale, l’eterna bellezza, attraverso il supporto dell’opera creativa, e accedere allo stato dove la causalità non esiste.

Senza ombra di dubbio l’arte è un’attività contemplativa, perché promuove la conoscenza attraverso l’identificazione del soggetto e dell’oggetto, per mediazione della bellezza. Ma l’“esteta”, il personaggio ufficiale che si occupa di queste questioni, l’ignora, poiché è innamorato solo della superficie delle cose.55

L’arte è l’evocazione dell’idea archetipica, invocata nel rito della creazione. È l’irruzione dell’invisibile e dell’inaudibile, che mediante la forma e il pensiero esprimerà sé stesso, riconoscendosi nel gesto e nella parola, che configurano tutta la manifestazione – anche quella cosmica –, il che equivale alla creazione di un linguaggio o codice, che va dall’universale al particolare, e da questo ritorna all’universale, dovuto all’attrazione della perfezione dell’opera – alla quale non bisogna aggregare né togliere nulla–, che simbolizza la perfezione del suo creatore, per le corrispondenze che si stabiliscono tra di essi.

Le partite di scacchi del secolo XVIII, XIX o XX, hanno stili così diversi tra loro, come li hanno le arti visuali, la letteratura, la musica e ogni moda o attività, in intima relazione con le idee filosofiche, le scienze e le mentalità di questi periodi. Il gusto cambia, è relativo ed effimero come l’apprezzamento “estetico”. Ma se le opere sono state eseguite rettamente, e cioè d’accordo all’arte e come espressione della natura universale, della vita, della conoscenza, della comprensione delle norme del modello cosmico, o in concordanza con la scienza dei ritmi – il che equivale a dire perfette nel loro genere–, devono riflettere necessariamente la bellezza completa di ciò che le ispirò.

Ma oggi giorno il significato viene rimpiazzato dall’aneddoto, dimenticando che è il contenuto delle immagini mentali di chi realizza l’opera che rende effettivo il rito della creazione. Che senza di esse e il loro senso, tutto sarebbe una mera riproduzione o parodia (molto abile, spettacolare o routinaria), senza nessun oggetto né significato, salvo quello della moltiplicazione quantitativa, la lusinga momentanea della vanità, la degustazione di un piccolo potere o l’obbedienza alla “coscienza” morale (o immorale), soddisfatta dalla pura e semplice azione, alla quale si attribuiscono così caratteristiche magico-sacro-religiose, in un contesto sociale, materiale e profano.

Da questi punti di vista profani, l’attività artistica è un’attività commerciale come qualsiasi altra, forse una professione specializzata o un’impresa più o meno meccanica o un lavoro che qualcuno vuole compiere. Secondo il modello sociale vigente, è il mercante che ottiene il maggior profitto, poiché crea e manipola il mercato in relazione ai suoi gusti, alle sue ideologie e agli interessi particolari, in compagnia di altri personaggi analoghi, o contro di essi, con cui si divide il potere del “bottino” culturale e la sua traduzione monetaria.

L’arte non è qualcosa di leggero, chiaramente snob e classista, legato al trionfo nella vita e al successo. Un’attività per “furbi”, che per via di certe facilità, vengono sopravvalutati dimenticando che, d’altra parte, qualsiasi persona possiede queste disposizioni naturali in un campo o un altro, anche se non tutti sono considerati oggi come “artistici”.56

Infine, e per non continuare con questa dovizia di dettagli e con critiche ben conosciute da coloro che si interessano di queste questioni, e tornando ai nostri temi specifici, se non fosse un eccesso, diremmo che il simbolo, per definizione, è indefinibile, poiché è qualcosa di significante, distinto da sé stesso, per la qual cosa è tale.

Tuttavia non dobbiamo confondere il suo significato con la sua funzione significante o significativa. Infatti, il significato dei signa (o miracoli) è quello della rivelazione del soprannaturale. Non è mai l’effetto che quei signa producono sull’ambiente.57

Questa “definizione” si attaglia anche alla creazione artistica – simbolo per eccellenza – come anche con l’uomo, che è il simbolo più alto dell’opera della creazione. Se consideriamo il modello della ruota e lo trasponiamo all’essere dell’uomo, diremo che il punto centrale corrisponde al suo Io, alla sua interiorità, alla sua identità, al suo spirito, e la periferia ai suoi ego personali, alla sua esteriorità, alle sue circostanze e al suo corpo. Logicamente, se il punto centrale rappresenta lo spirito e la circonferenza il corpo, è facile inferire che ciò che va dal punto virtuale al limite del piano, la zona intermedia, che è quasi tutta la superficie della figura del circolo – vale a dire gli indefiniti raggi che comunicano ciò che è più interno, profondo e misterioso, con ciò che è più esterno, superficiale e manifesto –, corrisponderà alla funzione dell’anima o psiche, vero veicolo dell’arte.

Tenendo conto del fatto che questa mediazione ha una parte più alta, quella più vicina allo spirito (dove convergono le irradiazioni nel punto centrale e sono più vicine ad esso), ed un’altra più bassa, quella più vicina al corpo (dove i raggi si sono separati, allontanandosi dal centro).

Questa è l’antica distinzione tra la Venere Urania e la Venere Pandemia, e tra Diana ed Ecate, e anche tra la vera arte legata alla cognizione e alla bellezza, e l’arte della lusinga, o festiva, vincolata al gusto e alla superficialità. In verità questi estremi non si escludono, salvo nella mentalità di coloro che hanno preso partito per uno dei due, negando e disprezzando l’altro –avendo optato certamente per il più basso–, e ci hanno insegnato come unica e buona questa scelta, cercando di coinvolgerci nelle loro manovre.

Allora non ci rimane altro da fare che negare la negazione e affermare i principi, ossia l’immobile ed eterno (sacro), per poterlo completare con il suo opposto incessante, ciò che si muove e cambia (profano) e comprendere così il tempo e il suo senso simbolico, nonché quello della manifestazione, sapendo che nella manifestazione primordiale, nell’immutabilità, devono trovare il loro complemento e la loro origine. Poiché ciò che è sensibile è il riflesso dell’intelligibile, o, com’è stato detto, “l’invisibile può essere visto con l’intelligenza per mezzo delle sue opere”.58

Stiamo attenti a certe persone,59 che hanno fatto del loro conformismo o la loro ribellione un credo e che per un imperativo logico e storico della loro struttura interna non possono superare la periferia, l’illusione, la letteralità, il consumo psicologico e ideologico, la cattiva fede congenita e, soprattutto, l’ignoranza, che da qualche secolo è all’ultima moda.

4

Risulta quasi superfluo segnalare che dietro a qualsiasi manifestazione c’è qualcosa di precedente che la ha conformata, e che a quell’energia deve la sua ragione d’essere, sia che quella manifestazione venga considerata come fenomeno sia come espressione di qualsiasi tipo. Gli esempi più belli di questo fatto sono la spontaneità, il gesto puro, la vera intuizione intellettuale e l’atto gratuito.

La vita, la natura e il cosmo, sono ammirevoli rappresentazioni di questo avvenimento permanente, semplice e magnifico. Essi si esprimono nel quadro spazio-temporale in cui si plasma qualsiasi manifestazione, essendone l’uomo certamente parte integrante. Tutte queste rivelazioni simultanee degli esseri e delle cose sono, dunque, coetanee al tempo in un ambito spaziale determinato. Pertanto le espressioni possibili soggette a queste dimensioni spazio-temporali –in cui si produce l’esistenza umana–, che coagulano in forme cristallizzate, devono avere una struttura previa, rispondendo a certe coordinate –modelli o idee archetipiche– perché possano essere esse stesse le cose o gli esseri che costituiscono l’universo.

In verità, questi enti a cui ci stiamo riferendo, non sono altro che simboli o energie-forza che rappresentano –ciascuna nella sua forma o maniera sostanziale–idee che essi incarnano, dando luogo in quel modo al cosmo intero, al quale configurano.

Nel simbolismo del tessuto, è facile avvertire che la superficie brillante e luminosa di ciò che è visibile, del disegno essoterico, è l’espressione del lavoro laborioso, occulto e ordinato della trama e dell’ordito. L’idea di una struttura “anteriore”, o previa, ad un fenomeno o espressione qualsiasi, non è solo ovvia per il filosofo, l’architetto, l’artigiano o il professionista –o per un operaio di qualsiasi indole–, ma per tutti coloro che abbiano pensato qualche volta al linguaggio o semplicemente a qualsiasi morfologia.

L’immagine visibile è, quindi, la proiezione o il riflesso del pensiero, dell’idea, o dell’intuizione intellettuale, mediante la quale si manifestano le cose o si pretende di esprimerle.

Va da sé che questi simboli o giochi di simboli –che stabiliscono tra di essi diverse relazioni di diverso tipo–, configurano codici o linguaggi differenti, che essendo esposti a un livello di comprensione meno sottile, necessariamente devono oscurare il loro contenuto, od occultarlo, dal punto di vista di un livello più denso o più rarefatto di lettura.

Da lì proviene la funzione mediatrice dei simboli, come emissari, ponti o porte di passaggio da un piano della realtà ad un altro, che è sempre oltre quel piano.60 Soprattutto in un mondo che supponiamo uniformato e ugualitario quando in realtà si tratta di un universo differenziato e gerarchizzato. La prova di ciò ce la danno le distinte specie che lo popolano, come anche i diversi spazi che lo costituiscono, e i differenti tempi che ivi si succedono. È per questo che ogni simbolo è significativo, o significante, qualsiasi esso sia, e in particolare quelli in cui le distinte tradizioni dell’antichità riversarono la loro esperienza, come testimonianza della loro conoscenza intorno a ciò che è simbolizzato.

Perché per questi popoli i simboli non sono arbitrari, o convenzionali, o “metaforici”, ma raffigurano gli stessi principi, con cui mantengono una relazione analogica viva e reale. È questo che permette al simbolo di passare dall’ordine fenomenico a quello trascendente. Il che vuol dire che facilita la rivelazione sintetica o la comprensione di un linguaggio universale ed eterno, della quale lo stesso simbolo è solo un supporto, per accedere a un ordine distinto, che si trova ad un altro livello rispetto alla visione letterale o allegorica che di solito abbiamo dei fatti e delle cose.

D’altra parte, il simbolo –generalmente numerico o geometrico– si cela allo sguardo ordinario sotto l’aspetto decorativo o funzionale, perché questa è la maniera in cui si compie l’ordine naturale delle cose manifestate. Questo è particolarmente notevole nel simbolismo costruttivo, specialmente in riferimento al centro o all’asse. È il caso del centro invisibile di qualsiasi spazio, nel quale sono estremamente notori i muri e le pareti o l’ambiente che li circonda.

La stessa cosa accade con il simbolismo dell’arco architettonico, dove le evidenti colonne sono state sollevate simmetricamente a partire da un centro, sul piano orizzontale, che non è altro che la proiezione dell’asse verticale. Il quale, d’altra parte, rimane perfettamente occulto e imperturbabile, mentre di solito ammiriamo i lussuosi e pesanti paramenti esterni e gli aggregati più o meno tardivi.61 Il simbolo è passato inosservato e dobbiamo realizzare un lavoro con noi stessi, interno, per poter recuperare i valori simbolici.

D’altra parte, si sa che questo linguaggio è stato utilizzato unanimemente dai maestri e dagli artisti di tutte le civiltà tradizionali. Dobbiamo quindi cominciare a creare dentro di noi le possibilità della comprensione, necessarie per interpretare e vivere questi “segreti” dell’arte e del simbolo. Perché tra noi ed essi c’è solo una muraglia psicologica, che può essere trasposta malgrado un’immensa difficoltà attribuibile alla dimenticanza e soprattutto all’inversione totale dei valori attuali riguardo al mondo e all’uomo stesso, il quale, tuttavia, oggi come ieri, è nato per la conoscenza. E sebbene il simbolo, il mito e il rito, possano essere trattati in forma congiunta, può essere forse necessario stabilire qualche differenziazione tra di essi.

Il simbolo iconografico è più legato allo spazio e infatti –come è notorio negli yantrams indù e nelle icone del cristianismo orientale– cerca di indurre, o creare, uno spazio distinto nella coscienza di chi lo contempla.

Il mito, al contrario, potrebbe vincolarsi in maggior grado con il tempo e in verità ci connette con un tempo differente da quello quotidiano. Nel tempio si combinano queste due caratteristiche e lo spazio sacro pretende di “intrappolare” il tempo degli eroi e degli dei.

Il rito, da parte sua, drammatizza (o psicodrammatizza, per parlare in termini moderni) la cerimonia, e reitera, attraverso la voce, il gesto e il movimento, il tempo e lo spazio primigeni.62 Li restituisce alla loro verginità e purezza originali, attribuendo all’ordine interno e al pensiero il suo autentico valore, la sua armonia intrinseca.63

E qui dobbiamo ricordare che l’arte riconosce origini sacre (non necessariamente religiose). Questo è il caso della danza, la musica, la poesia (vates, da cui Vaticano), ecc. D’altra parte l’arte non ha avuto altri propositi nel corso dei tempi, in quanto è sempre stata una permanente ricerca della conoscenza, o meglio, del riconoscimento.

Ora, se esistono idee archetipiche, o giochi prototipici strutturali anteriori alla manifestazione, e che esprimendola la conformano, è logico inferire che quelle coordinate costituiscono un modello universale esatto, preciso e concreto. Questo modello non è certamente rigido, macchinale o un artefatto di orologeria, come lo potremmo immaginare noi con la nostra programmazione industriale. E meno ancora un computer infernale o un’audiocassetta indefinita, che finirebbe, insieme alle nostre vite e a quella del mondo, in una costante relazione causa-effetto. Si tratta piuttosto di un organismo vivo, come l’uomo e la natura, e pertanto di un mistero pieno di punti di congiuntura, che è impossibile computare per il loro proprio comportamento sopralogico e metaquantitativo. In sintesi, una poetica. Un’opera d’arte.

In questo senso, il cosmo e il piano in cui si è conformato, configurano la possibilità di espressione e concezione artistica più gigantesca che si possa immaginare, poiché da questo modello, e dalla sua manifestazione, derivano tutte le forme possibili e secondarie di realizzazione, sia che abbiano un senso, sia che abbiano il senso opposto, sia che si trovino neutralizzate tra entrambi.

Poiché è la disarmonia costante delle parti che produce necessariamente l’armonia e l’equilibrio dell’insieme. Questo è valido tanto per il modello cosmico universale quanto per l’uomo nella sua integralità, che non è altro che una miniatura di tale modello.

Da una parte l’uomo vero come punto interno o cuore del cosmo, dall’altro, all’opposto, l’universo come una proiezione dell’essere.

La forma più semplice è in tutte le forme, il che equivale a dire che tutto è in tutto e che tutto è in noi stessi. Ed è curioso osservare che queste semplici verità, che in qualche modo conosciamo –e di cui certamente tutti abbiamo esperienza–, siano oggi ricoperte da un velo di vergognosa autocensura, perché forse sentiamo timore che ci riportino all’infanzia, o all’adolescenza, e magari ci facciano perdere il bagaglio “intellettuale” conquistato a volte a costo di molta fatica e molti sforzi.

Per qualcuno sarebbe di dubbio gusto affermare che la vita –o la natura come una sua illustrazione– non si sbaglia mai. O che la sua pelle possiede tutti i tipi di consistenza e che muta ad ogni stagione. O anche assicurare che cresce, si sviluppa, invecchia e muore. Che la manifestazione universale –simbolizzata dalla danza di Shiva– è la perfezione, l’equilibrio e l’armonia; che in tutti gli angoli del mondo, o del cosmo, prende tutte le forme possibili e non c’è odore né suono che non sia incluso in essa.

La stessa cosa accadrebbe se asserissimo che questa manifestazione è l’unica cosa che non ha mai smesso di essere nuova, o sorprendente, e che un uomo o una donna la potranno contemplare sempre per la prima volta. O che ha potuto superare il pessimismo o l’ottimismo dei suoi progetti, poiché questi sono le sue realtà di ogni giorno. Che tra il simbolo ed essa stessa non c’è nessuna differenza. E che attraverso la contemplazione della sua simbolica trascendiamo la dualità del carcere della mente, poiché contemplare è ricreare l’opera d’arte permanente. E anche che siamo generati ogni volta che si compie un nuovo ciclo e si apre una porta d’accesso ad altre realtà tanto più effettive quanto meno illusorie. Il simbolo e l’arte –trasmettitori e ricettori di energie– ci offrono la possibilità di un’uscita, di una scala, di un cammino da percorrere molto più facilmente di quanto si possa immaginare. A volte i sentieri si perdono nel labirinto. È possibile che questo sia l’unico modo, per alcuni, di uscirne.

Nel caso dell’arte e dell’artista, sono specialmente valide le parole di William Blake: “La via dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza”.

Inoltre, esistendo un modello cosmico universale, l’opera d’arte è già fatta. È stata simbolizzata. Ed ha un piano e un ordine. Tutto il nostro lavoro consiste in ritrovare ed unire i frammenti di noi stessi, verso la sintesi definitiva. Ciò che è più semplice è sempre a portata di mano, nell’interiorità di ciascuno di noi.

Realizzare il nostro lavoro con l’insieme delle nostre possibilità, partecipando della gran opera universale mediante norme e metodi concreti; il primo dei quali, si sa, è la dedizione al lavoro: una forma d’amore. Comprendendo che non siamo esclusi dalla vita e dalla manifestazione, e che invece ci si aspetta tutto da noi, secondo le nostre particolarità, qualsiasi esse siano, senza stabilire paragoni né giudizi, tanto relativi quanto arbitrari.

Si dice che il simbolo siamo noi stessi. Che la vera opera d’arte è ciò che può fare ciascuno di noi con sé stesso in fondo al suo cuore. Le produzioni sono secondarie, e arrivano in aggiunta. Ciò che è veramente valido si trova nella zona più misteriosa e sconosciuta. E certamente nessuno potrà giudicarla senza sbagliare, poiché la libertà interiore è inqualificabile. Tantomeno dall’interessato.

Poiché essa non ha bisogno di niente, perché essendo appena la virtualità di un punto, uno spazio vuoto, è semplicemente ciò che è. Che ci piaccia o meno. A noi, agli “amici” o “nemici”, o alla nostra sovrastruttura mentale, che certe volte ci gratifica perché possiamo pavoneggiarci, e altre volte ci deprime moltissimo per farci cadere al primo ostacolo.

Traducción: Margherita Mangini.

NOTE

48 Una poetica non è solo una metafora, né un confuso ideale, né un vago “sentimento cosmico” – così come il simbolo non è solo allegoria –, ma piuttosto un modo di essere, una maniera di vivere, sempre legata alla ricerca della verità – e in questo senso eroica– , alla sete di conoscenza e pertanto alla reintegrazione al Sé Stesso.

49 Vedere più avanti la teoria della Tsim-Tsum cabalistica.

50 Nome con il quale agli alchimisti piaceva denominare sé stessi.

51 L’espressione ritmata o rima è propria della poetica, così come della musica e della danza.

52 Il pontefice deriva il suo nome da quello di ponte. Il che equivale a dire: da un veicolo mediatore tra due sponde o punti, che sono il cielo e la terra, i due poli della creazione.

53 Nel senso in cui Platone, nel Timeo, dice che “il tempo è un’immagine mobile dell’eternità; imita l’eternità”.

54 Le maschere teatrali greche hanno dato luogo, per mezzo del latino, alla parola “persona”.

55 “Guide cieche, che colate il moscerino e inghiottite il cammello!” (Matteo, XXIII, 24).

56 Nella cucina, nel giardinaggio, nella medicina, nella caccia, nei giochi di mani, nel calcolo aritmetico, ecc.

57 Cfr. cap. II nota 22.

58 Romani 1, 20

59 Queste persone siamo anche noi o molti dei nostri ego.

60 Ogni messaggio o messaggero è l’espressione di una realtà più ampia e superiore, della quale esso è solo il rappresentante.

61 La stessa cosa vale per qualsiasi figura geometrica o “struttura primaria” in relazione con l’aritmetica e specialmente con la serie da 1 a 9.

62 Il tempio riunisce lo spazio e il tempo, come il movimento –rituale della ruota– li coniuga e li rende effettivi. Templus è un diminutivo di tempus. Un microspazio ed un microtempo simbolizzano tutto lo spazio e tutto il tempo posti in azione dalla “ruota della vita.”

63 Fortunatamente o purtroppo, non si può comprendere il rituale, il simbolo o la creazione intera, se non si è in possesso delle chiavi che queste espressioni portano implicitamente in sé, nel quadro in cui si sono manifestate. Se l’opera d’arte corrisponde ad un’idea, o almeno ad una forma di pensiero, dobbiamo risalire all’origine di quest’idea o all’identificazione con questo modo di pensiero, per poterlo comprendere realmente. Da lì proviene la necessità di un insegnamento e l’apprendimento graduale nella realizzazione della conoscenza. Vale a dire la via iniziatica attraverso la via simbolica o mitica o poetica. Perché queste forniscono, in effetti, un mezzo specialmente adeguato, un impalcatura che permette l’incarnazione, in relazione all’apertura della coscienza e che, certamente, non solo modifica la nostra mentalità, ma anche la nostra vita. Perché se siamo capaci di sentire le voci rivelatrici che si trovano nella nostra interiorità, mediante un lavoro paziente e delicato, un’arte, arriveremo alla convinzione che queste voci corrispondono agli insegnamenti che ci sono stati dati e che, d’altra parte, sono quelli che costituiscono quel simbolo o mito che cominciamo a comprendere e che diventa effettivo o si vivifica in forma rituale nell’interiorità della coscienza, che in quel modo acquisisce categoria universale.